Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere

Misericordia e utopia: guidato dai due concetti al Diocesano un viaggio tra immagini, suoni e racconti 

[ Museo diocesano tridentino]

“Un museo ecclesiastico deve occuparsi delle problematiche della comunità, non solo di arte. Il vescovo Tisi ha definito ‘coraggioso’ il progetto della mostra, una delle più difficili da costruire, anche per il pericolo che la narrazione possa cadere nel didascalico o nel retorico”.

Introduce con questa riflessione Domenica Primerano, direttrice del Museo diocesano tridentino, Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere, l’esposizione che sarà inaugurata, ospite Franco Riva, venerdì 25 alle 17.30 presso lo stesso Diocesano e sarà visitabile nelle sale del piano terra fino al 27 marzo 2017. L’iniziativa, a cura di Domenica Primerano e Riccarda Turrina, intende aprire uno spiraglio sulla realtà del carcere, un luogo “altro”, spesso distante dall’esperienza quotidiana.

In concomitanza con il Giubileo della Misericordia e con il Progetto Utopia 500, promosso in occasione dei 500 anni dalla pubblicazione di Utopia di Tommaso Moro, il viaggio tra immagini, suoni e racconti si dipana affidandosi al leitmotiv di due concetti: misericordia e utopia. I due “stati” fanno riferimento, il primo, a un sentimento rivolto a quanti "vivono nelle più di sparate periferie esistenziali" (Misericordiae Vultus, Papa Francesco); il secondo, ad un'aspirazione ideale per immaginare un "altrove" forse irraggiungibile. L'Utopia immaginata da Tommaso Moro, ma anche l'utopia che oggi si declina nell'idea di perdono come alternativa alla vendetta, sentimento che si fa azione e che caratterizza il rapporto della nostra società con chi ha commesso un reato.

“Non si tratta di documentare una realtà – riprende Primerano- ma di far riflettere sul mondo del carcere, di avvicinarlo ai visitatori per coinvolgerli in una certa angoscia costruttiva, che possa rovesciare il punto di vista, aiutare a mettersi 'dall’altra parte'. L’avvio è con le incisioni di Piranesi, un tunnel buio di immagini restituite anche da un video che le rielabora in forma tridimensionale. Da qui si snoda un percorso più luminoso, con toni caldi affidati alle immagini di Silvia Camporesi che nel suo Atlas ha fotografato i luoghi abbandonati in Italia- conclude la direttrice".

Dopo Piranesi e Camporesi, il racconto proseguirà con il video di Barbara Cupisti, mentre le immagini di Luca Chistè e Fabio Maione raccontano gli spazi vuoti dell'ex carcere di Via Pilati a Trento. 

"Si tratta di un progetto elaborato all'indomani della chiusura del carcere, un'indagine per restituire uno sguardo di queste realtà svuotate di contenuti - spiega in tal senso Chistè -. E' sorprendente come ancora oggi vi si respiri una vita densa in ogni anfratto, l'energia e quasi la presenza delle persone che, per ragioni di sicurezza ,è probabile abbiano saputo un attimo prima del trasferimento che era giunto il momento di partire. E' come si fosse cristallizzato un respiro unico del carcere, un tempo sospeso in cui la presenza dell'elemento segnico è determinante".

Per approfondire

Il percorso espositivo

Il percorso prende avvio da una serie di acqueforti tratte dal ciclo Le carceri di invenzione di Giovanni Battista Piranesi (Venezia 1720 – Roma 1778), personalità artistica tra le più complesse, poliedriche e affascinanti del Settecento europeo. Edite originariamente a Roma tra il 1749 e il 1750, le Carceri di Piranesi rappresentano uno degli esiti più alti e innovativi della storia dell'arte grafica e sono divenute ormai un vero caposaldo del nostro immaginario collettivo. Bizzarre, oniriche e inquietanti, queste incisioni visionarie hanno mantenuto inalterato nel corso dei secoli il loro fascino misterioso, in bilico tra scenografia barocca e capriccio di fantasia. La visione delle opere di Piranesi è arricchita da una proiezione animata e tridimensionale delle Carceri d’Invenzione: il video, realizzato da Factum Arte, permetterà al visitatore di entrare nella mente dell'incisore e di intuirne la febbrile e tenebrosa inventiva.

Con le fotografie di Silvia Camporesi (Forlì, 1973) si entra nel silenzio sospeso del carcere dismesso dell'isola di Pianosa. Le attività dell'istituto sono cessate definitivamente nel 2011 e Silvia Camporesi è stata la prima fotografa ad entrare in quel luogo protetto, inedito per la fotografia. Da questo viaggio è nato il racconto per immagini Planasia, un progetto speciale realizzato per Fotografia Europea 2014 che è entrato a far parte della serie Atlas Italiae, un vero e proprio atlante dei luoghi abbandonati, una mappa ideale dell’Italia che sta svanendo. Nelle fotografie esposte in mostra lo sguardo di Silvia Camporesi si posa sugli intonaci scrostati, frastagliati come i confini in un planisfero, sulle vecchie pentole d’alluminio adagiate sul pavimento, sui letti inondati dalla luce rarefatta di un’eternità incombente, sui documenti d’archivio di un carcere in disuso, carte che parlano di burocrazia e sofferenza. Una delle fotografie esposte, Planasia #12, ha ricevuto un prestigioso premio al MIA Photo Fair 2016 (Premio BNL Gruppo BNP Paribas), ultimo di una serie di riconoscimenti che consacra Silvia Camporesi come astro nascente della nuova fotografia italiana.

Il video Fratelli e sorelle. Storie di carceri della regista Barbara Cupisti (Viareggio, 1962), premio giornalistico televisivo Ilaria Alpi 2012 per il miglior reportage italiano, conduce il visitatore nelle carceri di Torino, Milano, Padova, Trieste, Trento, Roma - Rebibbia, Napoli - Poggioreale, Secondigliano, Pozzuoli e Terni. Il documentario non è commentato da una voce narrante: sono le testimonianze dei protagonisti - detenuti, familiari, agenti di polizia penitenziaria e direttori - a raccontare l'emergenza delle carceri di oggi. L'attenzione si sofferma in particolare sulla condizione detentiva delle donne, indagata anche da Melania Comoretto (Torino, 1975) nel suo lavoro fotografico Women in prison, una serie di ritratti femminili realizzati nelle carceri di Rebibbia (Roma) e Trapani. In queste immagini le detenute sono isolate rispetto al tragico contesto del carcere e si offrono allo sguardo dell'obiettivo nella loro quotidianità. Le immagini non sono un'inchiesta sulla situazione carceraria italiana, né una denuncia del disagio sociale sotteso alla detenzione femminile. Sono scatti che nascono dal desiderio di un incontro e che sottendono un discorso, molto più ampio, legato al rapporto di queste donne con il loro corpo, con gli affetti e le relazioni fondamentali (genitori, figli, fratelli) messi a dura prova dall'isolamento sociale.

Le immagini di Luca Chistè (Trento, 1960) e Fabio Maione (Roma, 1951) raccontano gli spazi vuoti dell'ex carcere di Via Pilati a Trento, chiuso nel 2010 dopo 130 anni di storia. La lettura dei luoghi punta l’attenzione principalmente su due aree di azione fotografica: quella degli ambienti utilizzati dai carcerati in sé e per sé - celle, spazi di preghiera, aree condivise, infermeria, luoghi di ascolto, corridoi - e quella delle sopravvivenze, materiali e segniche che, in grandissima quantità, erano presenti al momento delle riprese all’interno della struttura carceraria. Le immagini conducono l'osservatore a riflettere su quale possa essere, al di là dell’immaginario collettivo, del percepito o dell’autorappresentato a livello individuale, il vissuto di una persona costretta, dovendo scontare una pena, a vivere all’interno di un carcere.

La vita del carcere di Via Pilati è al centro del documentario Voci e silenzio di Juliane Biasi Hendel (Merano, 1962) e Sergio Damiani (Milano, 1965). La narrazione della realtà dietro le sbarre è affidata alle voci dei detenuti e di tutte quelle persone che, in condizioni spesso difficili, lavorano 'dentro' le mura del carcere: l'ex direttore del penitenziario cittadino Gaetano Sarrubbo, il personale di polizia, ma anche il medico, il cappellano, i volontari, gli insegnanti. Il film ritrae quindi non una, ma tutte le componenti della comunità carceraria, diventando specchio, il più possibile fedele, di una città nella città, un luogo di detenzione, ma anche di speranza.

Chiudono la mostra le superfici di Sergio De Carli (Trento, 1946) che indagano le parole del carcere, espressioni di un parlato a volte gergale, che spesso rispecchiano la mancanza di autonomia, la spersonalizzazione e la dipendenza dall'autorità. Le composizioni dell'artista, spazialmente ordinate, restituiscono un mondo emotivo, sfaccettato e coinvolgente. Sergio De Carli è anche compositore del brano Spazio (1998) che il visitatore potrà ascoltare nella prima sala della mostra.

 


23/11/2016