I cibi del carnevale nella tradizione trentina

Dallo smacafam “onto e bisonto soto tera sconto" ai riti carnevaleschi delle valli trentine. Di Marta Villa

Lachè, Romeno (Trentino) [ www.carnivalkingofeurope.it]

L'importanza del cibo nelle feste primaverili è da ricercarsi non solo nel tipo di prodotto preparato e consumato, ma nell'atto fondamentale di cucinarlo e mangiarlo insieme: la dimensione della condivisione alimentare, tema molto caro ad Expo 2015, è legata indissolubilmente alla costruzione della collettività, sia essa un paese intero o una singola frazione o quartiere. Interessante è dunque ricercare questo filo rosso che attraverso i secoli è giunto fino a noi e che ancora oggi è il collante più vigoroso che mantiene vive queste feste: in questo modo possiamo confermare quanto sia importante l'innovazione della tradizione, che permette al passato di travalicare nel futuro e al presente di rinnovare con senso gesti e parole che altrimenti risuonerebbero solo vuoti perché privi di ogni legame con la comunità che continuamente li rivive.

Un piatto tipico del giovedì grasso è lo smacafam, uccidi la fame, “onto e bisonto soto tera sconto, sconto ‘n te ‘na cassetta se te ‘ndovini ten dago ‘na fieta”: lo smacafam viene cotto sotto la cenere e ha come ingredienti farina bianca, latte, olio, lucanica fresca, pancetta affumicata, burro e sale.

In molte cerimonie carnevalesche nelle nostre valli trentine i ragazzi preposti alla questua per l'organizzazione della festa chiedevano cibo: in valle del Noce, ad esempio, i Gallinari, giovani tra i 12 e i 14 anni, già dal 17 gennaio (Sant'Antonio Abate) giravano vestiti da eremiti cantando De Profundis e Miserere, ricevendo in offerta grasso e farina, utilizzati poi il giovedì grasso per produrre un alimento semplice e distribuito a tutta la collettività.

Similmente accadeva a Condino, dove diversi ragazzi il giovedì grasso giravano per il paese travestiti con maschere paurose trascinando una slitta con sopra la giubiana (strega) e chiedendo in offerta farina, frutta e fiaschi di vino.

Altro rituale trentino legato al cibo è quello di Romarzollo/Varignano, frazione di Arco. La tradizione vede la costruzione dei carnevali, ossia delle piramidi di legno di bambù decorate con alloro, gusci d’uovo, salsicce, arance e biscotti che vengono portati in processione per le vie del paese e poi bruciati sul “doss del carneval”, una altura sopra la frazione al canto della cantilena dialettale: “Carneval buta ‘jal/butel bèm. Smaca i ovi nel capel/ ‘l capèl l’è descosì./Tuti i ovi for de lì./Viva la Quaresima/che ‘l carneval l’è na./Polenta e pessatine/ doman se magnerà!” Al termine del falò ora vengo distribuite torte, frittelle, vino caldo e il brazedel, focaccia primaverile.

A Varone, invece, nel comune di Riva del Garda, abbiamo la preparazione di polenta e mortadella, di origini settecentesche, ancora oggi come allora, organizzata da un apposito comitato. La polenta è quella gialla di Storo e la mortadella viene confezionata secondo particolari ricette segrete sia per la mistura di carne che di spezie, tramandata dagli organizzatori di generazione in generazione, segrete sono anche le essenze di legno che vengono impiegate per affumicare il salume.

Nelle vicine Giudicare invece si prepara il capu(s) che sembra avere assonanze con il cavolo cappuccio per il nome ma non trova negli ingredienti questo ortaggio: sono pacchettini di pane grattato mescolato a verdura verde, formaggio grana, uova, burro, uva sultanina, sale, pepe ed aglio che, dopo una lunga cottura, vengono gustati con saporiti insaccati.

In un ricettario del ‘700 redatto da don Felice Libera troviamo come ricetta tipica del carnevale trentino la tipica “culata di porco fresco” cotta in umido e servita con gnocchi di pane e verza.

In Val di Non ci sono testimonianze di antichi rituali dove era presente il cibo: a Coredo il giorno delle Ceneri giovani, travestiti, giravano per il paese con un cavaliere a cavallo di un asino: lungo il percorso si cantava la "Canzon dela polenta". A Romeno erano invece i Lacché che distribuivano la polenta cucinata in piazza per tutti i presenti, e come si ribadisce nella fonte (Bertagnolli, 1910), sia esso indigeno o straniero. Lo stesso accadeva a Nanno: nel 1911 abbiamo la testimonianza scritta di Roberti che riporta la canzone della polenta "Salve polenta, cibo da re i tuoi fedeli son pronti ai tuoi piè..."

Marta Villa - PhD in Alpine, Food and Identity Anthropology,collaboratrice della cattedra di Antropologia Culturale Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Università di Trento, Presidente Club UNESCO di Trento

09/02/2015