Integrarsi o morire? Momenti antichi dell'eterna crisi mediorientale

Per la tappa del ciclo "Come cambiano i libri", Elvira Migliario ci racconta il "suo" libro.

 

"Fra i libri che hanno cambiato il mio modo di guardare al passato, ma anche di leggere la contemporaneità, facendomi capire già al secondo anno di università che la storia antica mi interessava e mi piaceva più di qualunque altra scienza dell’antichità, c’è senz’altro ‘La guerra giudaica’ di Flavio Giuseppe.

L’autore, membro di un’antica famiglia sacerdotale e perciò appartenente alla classe dirigente ebraica, vi descrive il conflitto epocale che si concluse nel 70 d. C. con la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. Nei decenni precedenti, i vari governatori inviati da Roma non erano stati in grado di arginare i disordini e i focolai di rivolta che scoppiavano continuamente nelle campagne, di solito a partire dalla Galilea, e che spesso in occasione delle principali festività religiose coinvolgevano anche Gerusalemme, dove i ribelli compivano attacchi e attentati. 

Nel giudaismo del tempo coesistevano infatti diversi orientamenti ideologici (Flavio Giuseppe li chiama ‘filosofie’), il più estremistico dei quali aveva sì motivazioni economiche e sociali, ma soprattutto religiose, poiché si basava su varie profezie messianiche che predicavano  la cacciata del dominatore straniero e la restaurazione del regno d’Israele.

Le classi alte, per lo più schierate su posizioni moderate che lo stesso Giuseppe condivideva, persero definitivamente il controllo della situazione nel 66 d. C., quando l’inattesa e incredibile ritirata della guarnigione romana attaccata sembrò dare ragione ai gruppi più radicali: sfidare Roma e sconfiggerla era possibile, perché Dio stava dalla loro parte. Questo episodio secondo Giuseppe segnò l’inizio della rovina del suo popolo: accecati e abbandonati da quel Dio che era in realtà passato dalla parte del nemico, gli insorti non avevano voluto riconoscere l’invincibilità di Roma e l’ineluttabilità del suo dominio sul mondo.

Così, quando nel 67 l’esercito romano aveva iniziato la sua marcia di avvicinamento a Gerusalemme entrando in Galilea e devastandola, lo stesso Giuseppe, che era stato inviato là dal governo insurrezionale per organizzarvi la resistenza, invece di suicidarsi insieme ai compagni superstiti decise di arrendersi al generale romano Vespasiano, e gli predisse che presto sarebbe diventato imperatore.

L’avere scelto la resa anziché la morte volontaria segnò l’intera esistenza di Giuseppe; circondato da sospetti e accuse di tradimento (dei contemporanei e dei posteri), si trasferì a Roma al seguito dei vincitori e vi trascorse il resto della vita studiando la storia del suo popolo e interrogandosi sul suo destino. Il racconto della grande guerra che aveva annientato una nazione e distrutto per sempre il tempio, suo nucleo focale, è il frutto della riflessione con cui Giuseppe riuscì a rielaborare la propria esperienza generazionale alla luce di un’interpretazione della storia che non prevedeva alternative.

Quel conflitto irragionevole e catastrofico aveva mostrato che le comunità ebraiche disperse oramai in tutte le regioni del Mediterraneo potevano avere un futuro, e dunque assicurare la sopravvivenza del giudaismo, solo accettando realisticamente il dominio dei Romani; solo la memoria storica avrebbe potuto salvaguardare la cultura e la tradizione giudaiche, inevitabilmente minacciate da un’integrazione nel mondo romano che si prospettava come inevitabile e necessaria".

Elvira Migliario - professoressa di storia romana presso l'Università degli studi di Trento

30/03/2015