Singolare emersione dal ghiacciaio della Vedretta di Lares

Un raro riflettore portatile austroungarico entra nel percorso della mostra Cosa videro quegli occhi

Nell’agosto dello scorso anno viene posto sotto sequestro un cavalletto telescopico proveniente dalla Vedretta di Lares. La Forestale di Spiazzo riesce così a mettere in sicurezza un primo importante reperto, che sarà completato da una successiva scoperta: un faro portatile da trincea.

Da pochi giorni, cavalletto e faro sono esposti nell’ambito della mostra Cosa videro quegli occhi, curata dal Laboratorio di storia di Rovereto e fino al 30 dicembre visitabile presso il Progetto Manifattura, a Borgo Sacco.

“Una novità che si inserisce in modo anche curioso, rispetto alle tematiche affrontate dalla mostra – spiega in tal senso il soprintendente per i Beni culturali Franco Marzatico -. Un oggetto che illumina e al contempo porta nella notte, nell’immagine tremenda della guerra. Il rinvenimento riguarda un oggetto raro, che prima avevamo visto solo in fotografia”.

“Il ritrovamento di un raro riflettore portatile austroungarico, recuperato dai ghiacciai durante l’estate del 2018 – aggiunge Marco Gramola della commissione storica della Sat – è collegato alla diminuzione di circa cinquanta metri dello spessore del ghiaccio. Un recupero che viene da una proficua sinergia tra Sat, Soprintendenza, Muse e Corpo forestale. Tutto è partito lo scorso anno con il ritrovamento di un cavalletto, sequestrato e depositato presso il museo di Spiazzo. Poco lontano quest’estate, durante le operazioni di sorveglianza, è poi affiorato il riflettore. É emersa alla fine pure la cassa di legno che lo conteneva, purtroppo vuota”.

Christian Casarotto, geologo del Muse, sottolinea in proposito l’importanza del lavoro multidisciplinare per far emergere i valori del ghiacciaio e quindi trovare la giusta chiave di valorizzazione di questi reperti.

Franco Nicolis, archeologo della Soprintendenza si sofferma poi sul Corno di Cavento e su Punta Linke, due siti di alta quota acquisiti dal punto di vista delle ricerche non solo per quanto riguarda la memoria, ma anche dal punto di vista turistico: si pensi che a Punta Linke, 3629 metri di quota, durante l’estate sono salite più di 2500 persone in 55 giorni. “Un polo di attrazione e un elemento in più per far vedere anche l’eleganza tragica della montagna. Il ghiacciaio, come il mare, continua a buttare fuori gli elementi – osserva Nicolis -. Il ghiaccio restituisce quello che vuole quando vuole, bisogna essere pronti a raccogliere quanto restituisce, e qui entra in gioco l’importanza dell’interdisciplinarità. Il ghiacciaio è come un archivio che racconta la storia passata: ci vuole la capacità di intervenire con il metodo giusto, al fine di ricostruire il contesto. È infatti lo studio del contesto ciò che ci può dare informazioni ulteriori. Registriamo molto interesse verso questo ambiente che possediamo in pochi, abbiamo il diritto e non solo il dovere di intervenire e tutelare questo patrimonio" - conclude.

“Di oggetto offertoci provvisoriamente per la mostra in corso da coloro che lo hanno recuperato dall’incuria del tempo e dalle mani dei rapaci” parla invece il responsabile del Laboratorio di storia Diego Leoni. Un’acquisizione tardiva ma importante perché la mostra Cosa videro quegli occhi è costruita su questo tipo di oggettistica. Oggetti usciti dalla terra, poco lavorati, poco ripuliti, che trasmettessero il segno del tempo, di questa consunzione e di questa fatica che ha comportato allora portare in quota pezzi di artiglieria, pesanti cavi di acciaio per le teleferiche. L’oggetto ha avuto in mostra una collocazione ideale - aggiunge -.Gli abbiamo trovato spazio in una vetrina che è dedicata alla guerra di montagna intesa come guerra di conquista e trasformazione della montagna stessa. L’artificializzazione del territorio alpino, questo potrebbe essere il titolo di quella parte di esposizione.

Dietro il riflettore recuperato, ne vediamo uno molto più grande, poi oggetti relativi allo scavo e alla perforazione. Il territorio racconta la storia di una guerra diversa, combattuta più con gli strumenti del lavoro, una guerra di trasformazione e non di distruzione. Una guerra che per sopravvivere a se stessa ha dovuto sì incessantemente distruggere, ma anche incessantemente costruire. Una presenza ancora forte, basti pensare che il novanta per cento delle strade che conducono oggi in montagna sono state fatte allora. Nel solo settore degli altopiani di Folgaria, Asiago e Cadore sono stati costruiti 3500 chilometri di strade di cui 900 in Trentino, su territori prima inaccessibili. Ci auguriamo che questi oggetti rinvenuti e portati a valle diventino oggetti che raccontino, che entrino in una narrazione pubblica e non nei magazzini delle soprintendenze” - auspica in conclusione Leoni.


27/11/2018