"Archeologia delle Alpi" e "Guida al Museo delle palafitte di Fiavè"

Le ultime novità editoriali  dell'Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni culturali 

 

Museo delle Palafitte di Fiavé, foto O.Michelon [ Archivio Ufficio beni archeologici PAT]

There is an unresolvable conflict between proper excavation and the need for speed, since there is an optimum speed at which the excavation can be carried out – the site, of whatever sort, should dictate the speed of excavation. To try to go two or three times as fast without serious loss is like asking a surgeon to carry out a heart operation in half an hour with a knife and fork. This is because archaeological sites are immensely complicated, and those that appear simple have usually been made so by inadequate excavation (Barker Ph. 1986, Understanding Archaeological Excavation)

"La frase di Philip Barker che ho voluto citare in epigrafe spiega molto bene, invece, anche se con una metafora, come chi lavora sul campo applichi sì una tecnica, che però deve essere costantemente messa in relazione con il contesto in tutte le sue parti e tutti i suoi condizionamenti, stratigrafici, naturali, organizzativi, logistici, contingenti o strutturali.

Per affrontare correttamente questi condizionamenti e per prendere decisioni complesse, la tecnica non è sufficiente, serve osservare, conoscere, elaborare un ragionamento, capire l’oggetto del proprio operare, oggetto che è un bene pubblico.

È sempre il caso di ricordare a tutti, anche agli archeologi delle Soprintendenze, che il legittimo proprietario del bene (insisto a chiamarlo così) è il cittadino, non l’archeologo. E il cittadino, verso questo bene, ha dei diritti legittimi ma anche e soprattutto dei doveri: potrà esercitare su di esso quel “pubblico godimento” di cui trattava il Capo VI della vecchia legge n. 1089 del 1939, ma dovrà anche conservarlo per le generazioni che sperabilmente verranno dopo di lui, e non potrà permettersi di disperderlo o distruggerlo semplicemente perché non è solo suo ma di tutti i cittadini, anche quelli futuri.

Spesso di questo ci si dimentica quando la cosiddetta società civile, quella dei cittadini, avanza delle istanze che collidono con l’idea del bene comune.

Ritengo sempre valida l’idea che la tutela archeologica non si può e non si deve limitare alla semplice imposizione vincolistica (oggi dichiarazione o verifica) né tanto meno alla “bonifica” (termine che farei abolire dal vocabolario dell’archeologo) di un sito o di un contesto archeologico per fini diversi da quelli della valorizzazione.

La tutela comprende azioni virtuosamente connesse che vanno dalla conoscenza pregressa, all’analisi remota, all’indagine archeologica condotta con un metodo che perlomeno non sia tra i molti che Sir Mortimer Wheeler definiva “wrong”, alla documentazione con tecniche e tecnologie adeguate, allo studio e alla ricerca dei contesti cronologici e culturali.

Come si può solo pensare di tutelare quello che non si conosce? La ricerca quindi deve essere un elemento costitutivo dei compiti degli uffici di tutela, da salvaguardare e da perseguire con tenacia, da imporre a forza a quelli che si adagiano su semplici e comode posizioni di “tecnico” (e probabilmente non sono pochi).

In un’intervista a Mario Torelli, apparsa sul numero di novembre 2014 del Giornale dell’Arte in occasione  dell’assegnazione del prestigioso Premio Balzan per l’archeologia, lo studioso invita a “salvaguardare la valenza scientifica degli organismi di tutela”.

Da questa conoscenza scientifica dipende anche la scelta della conservazione o meno dei beni. Io non sono favorevole all’accanimento terapeutico verso qualsiasi bene archeologico e all’idea di “conservare” tutto. La decisione di salvare deve essere preceduta da una profonda analisi del contesto, non solo archeologico. Certo è una grande responsabilità che spesso non viene presa con spirito equilibrato.

Come diceva il titolo dell’incontro annuale di Europae Archaeologiae Consilium tenutosi nel 2014 a Amersfoort (NL) è giunto il tempo di osare a scegliere (dare to choose), ma forse anche, come qualcuno in quella occasione ha fatto notare, di scegliere di osare (choose to dare)".

Franco Nicolis - direttore Ufficio beni archeologici Soprintendenza per i beni culturali Provincia autonoma di Trento

19/05/2015

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