“Il Trentino e i Trentini nella Guerra europea”
Alle Gallerie di Piedicastello una mostra dalla trama unitaria, caratterizzata da un “doppio movimento”.
La mostra intende collocare le vicende del Trentino e dei Trentini entro un contesto più ampio, illuminare un palcoscenico più grande di quello provinciale. E vorrebbe, inoltre, affermare nei limiti evidenti che ci siamo posti, che anche qui, sul nostro territorio, si riproducono gli aspetti più tipici della guerra moderna, della guerra totale: il coinvolgimento dei civili nel conflitto, l’affermazione e l’estensione del potere militare; il controllo autoritario con la conseguente sospensione dei diritti civili, repressione e censura del dissenso, abolizione della libera stampa; la messa in funzione di tribunali militari per reati compiuti da civili; la pratica dell’internamento ai danni di cittadini giudicati “pericolosi”; la politica “concentrazionaria” attuata nei confronti dei profughi allontanati dalle loro case.
Il percorso della mostra è cronologico. Vorrei tuttavia mettere in luce e se possibile enfatizzare la trama unitaria che ne sta alla base e che è caratterizzata da un “doppio movimento”.
Il primo movimento può essere definito come una “sottrazione”: sottrazione di uomini nel 1914. Per effetto dell’arruolamento in massa, tutti gli uomini dai 21 ai 42 anni sono chiamati a presentarsi ai rispettivi depositi reggimentali.
Nel 1915 la sottrazione continua, ma ora è la volta dei civili.
Nei giorni antecedenti l’entrata in guerra dell’Italia, i cittadini trentini, sospettati di “irredentismo”, di simpatia per l’Italia, associati alla Lega nazionale o alle società sportive sono arrestati e, senza processo, solo sulla base di una generica diffidenza politica, sono internati nelle baracche di Katzenau (presso Linz). Gli internati sono potestà, segretari comunali, avvocati, sacerdoti, medici, farmacisti, commercianti, artigiani, giornalisti. Dal Trentino scompare gran parte della classe dirigente liberale e cattolica.
La sottrazione continua pochi giorni dopo la creazione del fronte italo-austriaco con le evacuazioni forzate, con le decine di migliaia di profughi allontanati dalle zone del fronte e condotte nelle regioni più interne dell’Impero. Un flusso enorme di profughi di almeno 240.000 persone: ai 75.000 trentini si aggiungevano 75.000 sfollati dal Litorale e 90.000 tra croati e sloveni.
Un anno dopo, nel maggio 1916, quel movimento erosivo che si accanisce contro le popolazioni trentine continua. Altre 35.000 persone, perlopiù donne, bambini, uomini anziani, devono abbandonare i territori occupati ancora nel ‘15 dall’Italia e soggetti all’amministrazione italiana. Sotto il fuoco della controffensiva austriaca, in pochi giorni, senza nessun avviso, con modi spicci e autoritari l’esercito italiano ordina lo sgombero e il trasporto in Italia. Con loro ci sono i 50.000 provenienti dalla Venezia Giulia. Tutti nel novembre 1917, per effetto della rotta di Caporetto, si confonderanno con i 632.000 profughi provenienti dalle provincie di Udine, Belluno, Treviso, Venezia, Vicenza.
Negli stessi anni la sottrazione si esercita anche sui civili che rimangono nelle valli non toccate dalla guerra.
Ma arriviamo al secondo movimento. Se il primo si esprimeva nella sottrazione (di uomini, donne, energie, ricchezze), il secondo descrive un’operazione del tutto opposta, quella aggiuntiva. In altre parole, se il Trentino nel corso di pochi anni si svuota, contemporaneamente si riempie. Si riempie di soldati provenienti dalle tante nazionalità dell’Impero (boemi, ungheresi, croati, bosniaci) che si accasermano a Trento o nelle vicinanze per poi raggiungere il fronte; si riempie di reduci ammalati, feriti, mutilati; di prigionieri russi e serbi.
La città di Trento che all’inizio della guerra contava 30.000 abitanti arriva, in questi anni, a contenerne 100.000.
È una città poco definibile, è contemporaneamente una città ospedale, una città caserma, una città di retrovia, sede di uffici militari, sussistenza, smistamento; di magazzini; una città piena di automobili e di camion, di carri, di cavalli, di muli, di asini; di mense popolari e di ritrovi per militari; di cinema e di luoghi pubblici. Naturalmente di postriboli, con una diffusione “spaventevole” – come si scrisse – delle malattie veneree e, in particolare, della sifilide.
Si riempirono anche i paesi di retrovia, quelli delle valli di Fassa e Fiemme come quelli delle valli di Sole, Non e Giudicarie.
Si riempirono le montagne. Il fronte italo-austriaco che si aprì nel maggio 1915 fu, per quanto riguardava il Trentino, buona parte un fronte alpino-dolomitico: una linea che correva dall’Ortles all’Adamello, dal Pasubio all’Altopiano dei Sette Comuni, dalle Dolomiti fassane a quelle ampezzane e pusteresi.
Le strade e stradine, le caverne, le piazzuole, i ricoveri, le riservette, le polveriere, tutte opere in alta montagna che ora si andranno a visitare, magari in bicicletta, sono il prodotto di lavoro costretto, coatto, di migliaia e migliaia di uomini (soldati, prigionieri) arrampicati sulle alture. Sono opere esecrate e maledette.
18/12/2014