"Lezioni di storia": "Caporetto per chi perde, Caporetto per chi vince"

Alessandro Barbero al Teatro Sociale di Trento ricostruisce i passaggi più importanti della battaglia dal punto di vista di vincitori e vinti

[ Roberto Bertolini]

«Vedere il Teatro Sociale pieno la domenica mattina è di certo una soddisfazione, che testimonia la validità di questo importante momento di divulgazione culturale». Con queste parole Claudio Martinelli, dirigente del Servizio attività culturali della provincia di Trento ha introdotto questa mattina (11 ottobre) il secondo appuntamento del ciclo "Lezioni di storia" Laterza, in compagnia dello storico Alessandro Barbero.

Tutti esauriti i posti a sedere, in platea e sui palchetti, per il professore dell'Università di Torino, noto anche per molte sue partecipazioni televisive a trasmissioni come Superquark e La storia siamo noi. Ad introdurre la lezione, la storica trentina Patrizia Marchesoni.

Al centro del dibattito la disfatta di Caporetto, analizzata da una duplice prospettiva: non solo da quella, largamente indagata, degli sconfitti di quella battaglia, ossia l'esercito italiano, ma anche da quella dei vincitori, gli austroungarici coadiuvati da folte truppe dell'esercito tedesco.
Il contesto era quello di un'Italia che pensava di entrare in guerra e sfondare facilmente, dunque attaccava a testa bassa sul fronte dell'Isonzo, ma anche in Trentino, i due fronti italiani. Ecco perché arrivarono in serie le dodici battaglie dell'Isonzo, con gli italiani che attaccano e si dissanguano nelle prime uncidi. Con costi immani.

Per avanzare di otto chilometri sull'Isonzo, nell'undicesima battaglia, l'esercito italiano perde 160.000 uomini, tra morti e feriti. Dopo questa battaglia gli austriaci capiscono che serve l'aiuto del tedeschi, anche se non vorrebbero mai umiliarsi a richiederlo. L'imperatore Carlo non vorrebbe farlo perché quella con l'Italia è per gli austriaci «la nostra guerra» ma i tedeschi sono più avanti in preparazione e in armamenti ed il loro aiuto è necessario.

Barbero ricostruisce con puro spirito divulgativo, coinvolgente e ritmato, i passaggi più importanti di quei convulsi momenti, citando spesso passaggi scritti nelle memorie dei protagonisti principali di quella battaglia, per farne comprendere anche i risvolti psicologici, così importanti ai fini dell'esito della guerra.

Ad esempio, nei diari di Hindenburg, si ritrova la ritrosia ad intervenire in un fronte che i tedeschi consideravano marginale, ma poi il generale capì l'importanza strategica di Trieste per le sorti della guerra e a fine agosto si decide per l'intervento, ma servono lavori di preparazioni immani per portare sulle Alpi uomini e armi.

Alla fine a Caporetto si combatte la dodicesima battaglia dell'Isonzo, con il risultato che è universalmente noto. Una disfatta memorabile per l'esercito italiano, non tanto per i 40.000 morti e feriti, (non è la più sanguinosa, nell'undicesima battaglia dell'Isonzo ci furono 160.000 fra uccisi e feriti) ma  per i 260.000 prigionieri e 300.000 sbandati che pesano, eccome. Senza dimenticare i profughi civili, oltre mezzo milione. Oltretutto è una disfatta per la penetrazione del nemico: si perdono centocinquanta chilometri, dall'Isonzo al Piave. Ma Caporetto diventa simbolo di disfatta totale per antonomasia, soprattutto a livello di immagine internazionale.

Infatti, spiega Barbero, «Cadorna, attraverso un bollettino di guerra, dà la colpa ai soldati (che accusa senza mezzi termini di essere vili). Il governo blocca il bollettino, che però viene pubblicato sui giornali di mezzo mondo, causando una figuraccia di proporzioni gigantesche per l'Italia. In realtà gli studi degli ultimi anni hanno dimostrato il contrario, rendendo onore ai soldati e al loro impegno e rimandando le responsabilità sugli ufficiali in comando».

Peraltro, continua lo storico, il comando italiano sapeva tutto dell'offensiva austro-tedesca, ma pensava di poter resistere senza problemi. «Ragazzi, niente paura, gliele daremo secche» disse il comandante Badoglio, poi destinato a diventare maresciallo. «Un mix – dice Barbero – di ingiustificato ottimismo e mediocrità dei generali italiani».

Carlo Emilio Gadda era a quell'epoca sottotenente degli alpini e teneva un diario: "Asini, buoi grassi, pezzi da Grand'hotel" definì in un passaggio i suoi generali.
C'era anche molta retorica nelle comunicazione di molti ufficiali "letterati", in quella dei politici,  e nelle stesse indicazioni dei comandi ai soldati: il tutto non contribuiva certo a fare chiarezza.

Dall'altra parte c'era un paese allo stremo, dove mancava tutto, comprese forze fresche da mandare al fronte. Ecco allora che ufficiali giovanissimi (garzoni, barbieri ecc..) vennero sbattuti al fronte senza preparazione. E i soldati lo percepivano: «Signor generale, siamo in mano alle creature» scrisse un soldato in una sua memoria.

Sempre nei diari dei soldati si leggono molte riflessioni amare sulla incapacità italiana di avere degli ufficiali ed in generale degli alti comandi preparati e davvero capaci di affrontare momenti difficilissimi. «Caporetto – spiega Barbero citando diverse testimonianze di soldati che poi diverranno intellettuali, ma anche politici e protagonisti degli anni a venire - contribuirà a convincere tanti, intellettuali e non, che per l'Italia «servono cinquant'anni di bastone (e olio di ricino)». Che poi, puntualmente, arriveranno (anche se non cinquanta).

Roberto Bertolini

12/10/2015